Il grande teatro del gas: Gaza e la geopolitica del Mediterraneo che verrà
Il giacimento conteso
Al centro della questione c’è il giacimento Gaza Marine, scoperto nel 2000 al largo della Striscia. Una ricchezza rimasta dormiente per un quarto di secolo, paralizzata da guerre, blocchi e interessi contrapposti.
Si stima che contenga circa 40 miliardi di metri cubi di gas naturale,
per un valore industriale di oltre 7 miliardi di dollari. Il piano elaborato
nel quadro dell’accordo Trump prevede l’avvio della produzione a un ritmo di 2,5
miliardi di metri cubi l’anno, sufficienti a coprire il 60% del fabbisogno
energetico palestinese e a generare circa 250 milioni di dollari annui di
ricavi, di cui 80 milioni destinati all’Autorità Palestinese sotto forma di
imposte e royalties.
Un progetto da 1,5 miliardi di dollari finanziato da un consorzio a guida israeliana ed egiziana, con il sostegno di Chevron, Energean e altri colossi energetici occidentali. Il gas verrebbe trasportato tramite pipeline al terminal egiziano di El Arish, liquefatto e poi esportato verso l’Europa.
Un modello perfetto di “integrazione regionale” che, dietro la retorica della cooperazione, consolida la dipendenza dei territori palestinesi da infrastrutture e capitali controllati da attori esterni.
Il gas come leva di pace (o di profitto)
La vera novità del piano è una clausola apparentemente virtuosa: la sospensione automatica della produzione in caso di violazione del cessate il fuoco. Un meccanismo che, sulla carta, lega la stabilità politica alla prosperità economica. Ma, nella pratica, trasforma il gas in uno strumento di condizionamento geopolitico. La pace diventa una moneta di scambio, non un diritto: un bene da preservare solo finché conviene alle logiche di profitto.
In questo quadro, la ricostruzione di Gaza non appare come un obiettivo umanitario, bensì come una fase necessaria alla messa in sicurezza dei giacimenti. Ogni cessate il fuoco, ogni “accordo di sviluppo” rischia di diventare il preludio a una nuova colonizzazione economica, in cui le infrastrutture energetiche sostituiscono i carri armati ma mantengono intatto il controllo.
La pace condizionata è la nuova forma della guerra permanente.
L’Italia e la nuova geografia del potere
Anche l’Italia si trova, volente o nolente, al centro di questo scacchiere. Con Eni già protagonista nel Mediterraneo — tra Egitto, Cipro e Libano detiene riserve per oltre 70 miliardi di metri cubi — un ingresso, anche parziale, nel progetto Gaza Marine significherebbe rafforzare il Piano Mattei per il Mediterraneo.
Un’operazione coerente con la strategia di Roma di posizionarsi come ponte energetico tra Europa e Africa, ma non priva di ambiguità: perché il gas che alimenta l’industria europea nasce spesso dal silenzio imposto a popoli che non hanno voce sul proprio destino.
Se il progetto dovesse andare in porto, il Mediterraneo orientale potrebbe diventare la nuova frontiera energetica europea, con l’Italia nel ruolo di snodo naturale del corridoio Sud-Nord.
Un’architettura energetica che, nelle intenzioni, ridurrebbe la dipendenza dal gas russo, ma che in realtà potrebbe generare nuove dipendenze politiche, spostando l’asse strategico sotto la regia congiunta di Washington, Tel Aviv e Il Cairo.
Gaza come simbolo del XXI secolo
Il conflitto su Gaza non è soltanto una tragedia umanitaria o una disputa territoriale. È il paradigma di un’epoca in cui le guerre si combattono per le risorse, i dati e i flussi — materiali e immateriali. Le bombe aprono la strada ai gasdotti; la distruzione prepara il terreno per la ricostruzione privatizzata. Ogni infrastruttura diventa un’arma geopolitica, e ogni atto di “pace” un nuovo modo di gestire il controllo.
Il Mediterraneo, mare di scambi e civiltà, torna così a essere crocevia del potere mondiale: non più frontiera, ma laboratorio di un ordine economico dove l’energia sostituisce la sovranità e la sicurezza si compra in barili equivalenti di gas liquefatto. In questo contesto, la questione palestinese si trasforma da problema politico a variabile tecnica di una grande operazione di ingegneria energetica.
Il teatro del potere
Ecco allora il senso profondo di ciò che accade: un teatro globale del potere, dove ogni attore recita la parte che la geopolitica gli assegna. Le vittime diventano comparse, la pace un copione, il gas la vera protagonista invisibile della scena. Si rappresenta un dramma in più atti: la distruzione, la promessa, la ricostruzione e, sullo sfondo, l’illusione che tutto ciò possa chiamarsi progresso.
Gaza è il palcoscenico di un mondo che recita la commedia della modernità mentre prepara la tragedia del futuro. E il Mediterraneo, ancora una volta, torna a essere lo specchio delle contraddizioni del nostro tempo: un mare che unisce e divide, che nutre e affama, che promette energia mentre consuma coscienze.
Nel grande teatro del gas, le luci restano accese anche dopo l’ultimo atto. Perché lo spettacolo del potere — crudele, lucido e ben finanziato — non conosce mai la parola fine.
10.10.2025, Giovanni
Bonomo

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