A che Putin siamo? Cronaca semiseria di una guerra che non doveva mai iniziare

 Ogni volta che apriamo un giornale la domanda torna: a che Putin siamo oggi? Perché, diciamocelo, in questo conflitto la figura del presidente russo è diventata un termometro emotivo dell’Occidente più che un argomento geopolitico. Scusate l’ironia, non è per banalizzare la tragedia, ma per smontare la macchina narrativa che ci impedisce di vedere le cose da più di un solo punto di vista.

Il Putin colpevole a prescindere

Nella narrazione dominante, tutto ciò che accade in Europa orientale ha un protagonista unico: Putin.
È quasi confortante, in fondo: un solo cattivo, un solo colpevole, una trama semplice.

Peccato che la geopolitica reale sia un po’ più complessa del Truman Show mediatico, e che la domanda che ho sempre posto nei miei articoli, che trova la sintesi nello hashtag #perchéilconflittoèNATO non è un vezzo polemico, ma uno dei nodi fondamentali della crisi.

L’idea che la sicurezza europea si costruisca ammucchiando basi, missili e “esercitazioni” sotto la protezione di una potenza nucleare… non è proprio la “genialata” del secolo.

Il Putin che “non capiamo” perché non rientra nel copione

I fatti recenti ci mostrano un leader russo che, piaccia o no, parla la lingua del realismo geopolitico:

  • propone negoziati,
  • segnala linee rosse,
  • insiste sulla sicurezza reciproca,
  • denuncia apertamente l’espansione militare occidentale,
  • ripete da vent’anni gli stessi avvertimenti a cui nessuno, in Occidente, ha mai voluto dare ascolto.

Poi, certo, i nostri talk show fanno la caricatura: “vuole conquistare l’Europa”.
È la geopolitica hollywoodiana: intrattenimento travestito da informazione allarmistica, per non dire terroristica.

Il Putin che non è il problema… ma la conseguenza

A forza di demonizzarlo, l’Occidente si è perso il punto centrale:
non è Putin ad aver creato la guerra, ma la guerra ad aver creato un nuovo Putin nella percezione pubblica.

E questo è un guaio: perché la demonizzazione è sempre un ottimo alibi per non discutere le responsabilità occidentali, come:

  • l’allargamento della NATO a est,
  • il mancato rispetto degli accordi di Minsk,
  • gli investimenti militari crescenti,
  • la retorica sulla “vittoria totale”,
  • la censura delle voci critiche europee,
  • il bombardamento mediatico che trasforma il pacifismo in eresia.

I miei articoli e quelli di seri e indipendenti intellettuali su ODISSEA lo notano da tempo:
la guerra nel cuore dell’Europa non è un incidente, è un progetto politico, e la propaganda serve a farlo digerire.

Il Putin “nemico” serve più all’Occidente che alla Russia

C’è un dettaglio curioso: quando un nemico funziona, non lo cambi.
E Putin funziona benissimo nel ruolo di antagonista utile:

  • giustifica più armi,
  • giustifica più spese militari,
  • giustifica l’economia di guerra travestita da “resilienza”,
  • giustifica l’idea che la pace sia “pericolosa”,
  • giustifica il silenziamento del dissenso.

Ho sempre detto, denunciando che la deriva bellicista europea, che il primo passo per fermare una guerra è smettere di volerne una. E oggi, di questo, in Occidente non c’è la seria volontà di farlo.  

Il Putin che l’Occidente non vuole vedere: quello che chiede trattative

Non lo dico io: lo dicono i documenti, le dichiarazioni, i dossier. La Russia continua a dire: trattiamo. L’Occidente risponde: vinciamo.

È qui che il pacifista moderno si prende del “traditore”. Come se volere la pace fosse un’offesa ai valori occidentali. Come se la diplomazia fosse un’ingenuità. Come se fermare i bombardamenti fosse un’idea rivoluzionaria.

Eppure senza negoziati questa guerra finirà solo quando non resterà più nessuno da proteggere.

Se l’Occidente ha bisogno di un nemico per costruire la propria identità politica, allora la pace non arriverà mai.

Se invece si accetta l’idea che la sicurezza si costruisce insieme - Russia compresa - allora la questione cambia radicalmente.

Il problema non è Putin: il problema è la mancanza di un progetto europeo di pace.

A che Europa siamo?

Perché, ironia a parte, la vera domanda è questa.

Un’Europa:

  • che non guida ma segue?
  • che non media ma applaude?
  • che non discute ma ripete?
  • che ha paura della pace perché ha fatto della guerra un’abitudine retorica?

Se continuiamo a chiederci solo “a che Putin siamo”, rischiamo di non chiederci mai a che punto siamo noi.

E senza questa domanda, la pace – ogni possibile pace - resta fuori scena.

Milano, 21.11.2025
Giovanni Bonomo – Candide C.C.



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